Habitat sociale
da "Passaggio a Trieste" di Fabrizia Ramondino - Einaudi Editore

Sono stata in vari centri di salute mentale ispirati all’esperienza di Franco Basaglia, ma in nessuno di essi ho trovato un arredamento che corrispondesse ai criteri di accoglienza e convivenza da lui propugnati, come nel Centro Donna. Qui tutto è così naturalmente piacevole che, a un primo sguardo, non registri neanche perché.

In quegli altri luoghi, anche quando non ci sono sciatte commistioni di elementi eterogenei e ci si prende cura di ordine e pulizia, persiste un’impronta di ufficio e ospedale, di scuola e oratorio.

Stamattina, dietro quell’apparente naturalezza, scopro uno stile: la felicità degli accostamenti di ricco/povero, barocco/funzionale, elegante/trascurato, sontuoso/discreto, ricercato/semplice, superfluo/necessario, pesante/aereo.

Ecco quindi i tavoli di legno massiccio dipinti di blu, formati di elementi componibili e scomponibili in varie forme sinuose; poltroncine rotonde ricoperte di plastica rossa con la struttura in legno dorato, da teatro più che da salotto; comodi divani composti da cassoni verniciati di nero in forma di lunghi triangoli acuti coperti da cuscini sobriamente colorati, dove ci si può stendere o sedere; tavolini semicircolari che possono essere accostati o tenuti separati; mensole lineari disposte su piani irregolari ma armoniosi; lampadari bianchi e ovali che pendono dal soffitto in un gioco elegante di sospensioni; poche ma rigogliose piante da interni; qualche bel quadro o manifesto incorniciato alle pareti; tende, magari di seta, alle finestre.

È stata la mente di un particolarissimo ingegnere-architetto - o piuttosto anti-architetto – a concepire questo arredo: quella di Antonio Villas, che da anni collabora con l’èquipe del San Giovanni e del Centro Donna.

I criteri da lui elaborati per una nuova architettura di esterni e interni, che riguardano non solo i luoghi di sofferenza, ma anche tutte le strutture di servizio di cui quotidianamente i cittadini usufruiscono e che lui chiama “habitat-sociale”, si ricavano dal suo manifesto-denuncia:

“Gli spazi a uso collettivo sono anti-luoghi: frequentati per obbligo, sono concepiti senza alcuna considerazione o attenzione verso chi, al loro interno, lavora, studia, si cura, gioca, vive.

In questi contenitori qualsiasi di persone, estranei, ostili, deprimenti, il degrado se c’è, è naturale proseguimento di un’indifferenza e un’insensatezza più generali.

Scuole e asili sono edifici grigi, scatole-bunker chiuse al mondo. E qui i bambini dovrebbero apprendere la vita! Gli ospedali sono fortezze tecnologiche che aumentano il senso di insicurezza, preoccupazione e paura di chi sta male e di chi se ne occupa. Fabbriche e uffici sono laboratori di tristezza che parlano di coercizione e inutilità di un fare dequalificato. I palazzi sono labirinti senza inizio e senza fine, nei quali non è possibile riconoscere nemmeno l’ingresso.

Sono tutti anti-luoghi ovvero luoghi dove non vengono riconosciute le esigenze minime del vivere insieme, quali decenza, decoro, comfort, dove la relazione tra spazi e persone, la possibilità di comunicare con segni e colori, di creare sensazioni e stimoli, di indurre reazioni e comportamenti, di innescare trasformazioni, viene azzerata o espressa solo al negativo. Luoghi contro le persone, monumenti autoreferenziali.

Sono, queste, semplici osservazioni su quello che ci circonda. Non abbiamo alcuna teoria qui da proporre ma soltanto il resoconto e le deduzioni tratte da un’esperienza concreta, partita dai territori della sanità pubblica e in particolare da quelli più sensibili della salute mentale, della tossicodipendenza, della riabilitazione: “habitat sociale” è una sigla che identifica un modo di operare, una ricerca di qualità possibile, un tentativo di progettare semplicemente e banalmente degli spazi sensati in modo sensato.

Progettare vuol dire allora calarsi, senza schemi prefissati da imporre, nelle diverse situazioni con le loro storie e specificità; intraprendere un percorso di scambio e confronto; far emergere bisogni, desideri, potenzialità; elaborare soluzioni aperte in modo partecipato e contaminato; individuare quello che il luogo deve esprimere, suscitare, comunicare, e il linguaggio adatto allo scopo: e solo allora affrontare la fase finale dell’invenzione e delle scelte.

Oltre a quelli di partenza (centri di salute mentale e residenze, sedi e comunità dei serizi della tossicodipendenza per l’Usl di Trieste, laboratori e negozi per le cooperative sociali), sono stati progettati e realizzati altri spazi pubblici e privati: aree studio e mensa per l’Università di Parma, l’ufficio relazioni con il pubblico per il comune di Trieste, uffici, negozi, stand per imprenditori privati, un distretto socio-sanitario per l’Usl, ora Azienda servizi sanitari di Trieste.

Diverse la valenza, l’impatto di questi interventi, così come è diverso partecipare alla riabilitazione e ricostruzione di una persona in un centro di salute mentale o contribuire al ristabilimento di un rapporto civile tra cittadino e istituzioni in un ufficio comunale. Comune il tentativo di produrre qualità sociale.

Anche il negozio può essere fatto puntando sull’intelligenza piuttosto che sugli stereotipi, sul rispetto delle persone, che non sono polli da spennare. Anche lì si può giocare il rapporto in positivo. Tuttavia, se il negozio si fonda sugli stereotipi e mi considera un pollo da spennare, all’uscita del negozio io ho sempre la mia vita.

Non è così in un centro di salute mentale. Qui le persone sono essenzialmente lì e basta, oppure gran parte della loro esistenza è condizionata dallo stare lì.

Il mio discorso riguarda quindi soprattutto spazi pubblici ove succede qualcosa di determinante per le persone. In essi devi mettere al primo posto quello che succede lì, la relazione con le persone, quello che immagini l’ambiente possa provocare tanto al suo interno quanto verso l’esterno (il territorio è un ambiente dinamico). Per mettere questo al primo posto è fondamentale discutere con le persone che dovranno gestire e usare quello spazio su ogni particolare, perché non puoi essere solo tu il depositario del progetto, tu dovresti essere uno specialista in una fase finale dell’operazione. Devi insomma eliminare la separazione che normalmente c’è tra chi progetta e chi vive nelle cose progettate.

E se si vuole fare, si può fare anche con poco, non c’è bisogno di un container di soldi.

Chi non ha intenzione di lavorare sull’apertura, sull’innovazione, non mi chiamerà mai perché divento un rompiballe, un elemento di rottura. Mi si può chiamare solo dove si immagina di dover trasformare o aprire certe dinamiche, dove non si lavora alla conservazione dell’esistente, ma alla sua modifica, dove gli spazi devono significare qualcosa, perché al loro interno si svolge un’opera di trasformazione. Dove invece bisogna lavorare a nascondersi o a blindare, la mia proposta risulta demenziale e impensabile. Difendere le proprie scelte in sé non ha senso: se tutta la direzione di marcia verso la chiusura e io faccio uno spazio aperto cosa difendo? Me stesso e le mie scelte. Che senso avrebbe?

Sono molto colpita dalle teorie e dalla pratica di Antonio Villas. Gli architetti spesso mi sono sembrate delle figure a metà tra gli artisti e i tecnici - e quindi anche psicologicamente divise -, legate alle categorie dell’utile, ma con una maggiore insicurezza sul proprio ruolo – il ponte, oltre che reggere bene, deve essere anche bello? L’appartamento, oltre che bello, deve essere anche funzionale? Nel caso di Antonio Villas vedo invece profilarsi la possibilità di un loro compito diverso, non dato a priori, ma da definirsi nel rapporto con l’utente piuttosto che con il committente. E questo mi rimanda a quella che mi sembra sia stata l’unica esperienza esemplare di gruppo nel nostro secolo: quella del Bauhaus, presto stroncata dall’avvento del nazismo.

Esiste anche un’altra questione. È sufficiente costruire una struttura materiale “accogliente” per garantire l’accoglienza? E che significa accoglienza? Significa che, appena entri in un luogo, vuoi subito, e pretendi di avere subito, il tecnico che risolverà i tuoi problemi? Nell’ospedale, il medico; nel centro di salute mentale, lo psichiatra; a scuola, il professore, il segretario, il preside; in banca, il direttore… O significa che, oltre agli addetti, tu trovi anche un habitat materiale e psicologico che ti mette a tuo agio, che ti accoglie, che ti predispone, più che alla pazienza o all’impazienza per l’attesa, alla dimestichezza con le persone che ci lavorano o che come te vi passano e alla condivisione reciproca della situazione umana? In questo fine millennio assistiamo a un uso sempre più arrogante, onnipresente e cieco della scienza e della tecnica nell’affrontare le questioni connesse col corpo e l’anima, la mente e il cuore degli uomini, immancabilmente seguito da uno scacco. Non l’intelletto, ma una sua deficienza, è responsabile dello scacco stesso, come sosteneva “l’ingegnere” Robert Musil.